Nello studio dell’orologeria antica rimaniamo spesso affascinati dalla precisione meccanica con cui, alcuni grandi orologiai, eseguivano i loro lavori pur con i limitati attrezzi che avevano a loro disposizione, soprattutto se li compariamo con quelli che oggi offre la moderna tecnologia.
A questa carenza supplivano con la pazienza e l’ingegno, doti che invece oggi si trovano difficilmente negli artisti di questo settore. Sono mancanze dovute alla progressiva perdita d’interesse per la meccanica, sostituita in gran parte dall’elettronica, e, di conseguenza, con l’impoverimento sia della formazione che dell’interesse delle giovani generazioni.
Senza voler fare una “operazione nostalgia” ma per rendere il giusto merito ad alcuni orologiai che negli ultimi anni hanno rinverdito le tradizioni dei grandi nomi dell’orologeria, mi sono riproposto di parlare di alcuni di loro non solo per quanto riguarda il loro contributo tecnico, pari a quello dei loro predecessori, ma anche per far conoscere come sono riusciti a ristabilire alcune verità su orologiai del passato le cui opere, per invidia od ignoranza, erano state messe in discussione.
Questi meritevoli orologiai corrispondono ai nomi di George Daniels, Derek Pratt, Jean-Claude Nicolet ed Antony Randall, con la sola eccezione di quest’ultimo, tutti ci hanno lasciato nel corso degli ultimi 15 anni.
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Inizio a parlare di Randall sintetizzando una sua breve biografia che accompagnava le motivazioni per l’assegnazione del Premio Gaia 2003, per poi addentrarmi nel contenuto di tre dei suoi articoli, derivanti dallo studio dell’H4 di Harrison, con cui ha fatto giustizia su sospetti ed alcuni giudizi negativi sul lavoro del grande orologiaio.
A presto
Giuseppe